Paolo e Vittorio Taviani hanno vinto l’Orso d’Oro alla 62ma edizione del Festival di Berlino. “Cesare non deve morire” racconta la storia di un gruppo di detenuti che si preparano a mettere in scena “Giulio Cesare”, la tragedia shakespeariana. Ed è proprio ai detenuti, che hanno interpretato il film, girato interamente nella sezione Fine pena mai del carcere di Rebibbia, che va il pensiero dei registi al momento della vittoria.
Erano più di vent’anni che tale premio mancava al nostro Paese, l’ultima volta nel 1991 quando aveva trionfato “La casa del sorriso” di Marco Ferreri. Ma per i Fratelli Taviani non è il primo grande riconoscimento. Nel 1977 sono stati premiati con la Palma d’oro a Cannes da una giuria presieduta da Rossellini con il film “Padre Padrone”, raggiungendo poi il capolavoro con “La notte di San Lorenzo”, premiato con il Gran Premio della Giuria nel 1982.
Ero in terza media quando ho visto quel film la prima volta. Non avevo capito niente. Solo che alla fine i nazisti erano sconfitti e la Liberazione finalmente arrivava. Non che adesso ne capisca troppo, ma quando penso al nostro Cinema, quelle scene riempiono sempre la mia mente.
È. È la notte dei desideri insomma. Ma è il 1944, e c’è la guerra. Durante l’estate, nel paese di San Minia la notte del 10 agosto, la notte di San Lorenzo, quando le stelle cadono nel cielo. E si sa, ogni stella cadente esaudisce un nostro desiderioto, in Toscana arrivano i tedeschi che ordinano a tutti di ritrovarsi in chiesa. Temendo la trappola, e quindi un possibile massacro, uomini, donne e bambini decidono di disobbedire e scappare. Sono contadini oppressi dalla presenza tedesca. Muti e terrorizzati. Povera gente che cerca di sottrarsi allo sterminio nazista. Sperano di superare quella notte. Guardano al cielo e si augurano che quelle stelle portino un po’ di fortuna. E il coraggio necessario per tirare avanti.
Nel silenzio del buio, abbandonano il villaggio per andare incontro agli americani che stanno arrivando da Sud. Mentre sono intenti a raccogliere il grano, insieme a dei contadini legati alla Resistenza, vengono attaccati dai fascisti. Si susseguono scene di stragi e orrori, fino a quando non arrivano le truppe alleate. È la Liberazione. E nel corso della notte, il vecchio contadino Galvano, colui che ha preso l’iniziativa della fuga tra i campi, riesce a incontrare Concetta, da lui segretamente amata in gioventù. Si ritrovano attraverso un gioco delicato di sguardi, si sentono insensibilmente, misteriosamente riscaldarsi gli animi e quando le città attorno cominciano a essere liberate, nell’ultima notte prima di tornare a casa, si amano per la prima volta in una cascina, dove li hanno accolti credendoli marito e moglie. Con tale gioia del vecchio, tale pienezza raggiunta che il mattino dopo, il mattino della Liberazione, lui vorrà trattenersi ancora: per fermare“l’attimo bello”. Tutti fanno rientro a San Miniato. Così la donna finisce di raccontare la favola della notte di San Lorenzo.
È l’Italia del 1944, dei partigiani, dei fascisti, dei tedeschi e degli americani. E ce l’hanno raccontata due autori che hanno vissuto da ragazzi proprio quella notte, l’eccidio nella chiesa di San Miniato e la fuga. Ce la raccontano con gli occhi di chi era consapevole per età di cosa stesse accadendo, e di chi invece immaginava che fosse un gioco e una vacanza. E fin dalla prima pagina del film si capisce che quelle cronache di ieri, che fanno parte delle nostre coscienze, della nostra cultura, e anche del nostro Cinema migliore, saranno raccontate con uno spirito nuovo: con quello della partecipazione immediata, ma anche della distanza, con paura e con tenerezza. Un po’ come sono tutti i poemi.
È un grido alto che si fa poesia.