BERNARDO BERTOLUCCI: PRIMA DELLA RIVOLUZIONE.


G. scrive: “Indecisione: “I pugni in tasca”, “Fronte del porto”, “Un uomo da marciapiede”, “Straziami ma di baci saziami”. Non so quale film scegliere. Dite la vostra”. La prima risposta che mi è venuta in mente è stata “Prima della rivoluzione”. No, non era nella lista. Ma sono giorni che continuo a pensare a quel film. E credere che la prima volta non l’ho neanche finito di vedere. Succede…


Sono una pietra, non cambierò mai. Ho la febbre: la nostalgia del presente, ma il mio futuro da borghese è nel mio passato da borghese. Così, per me, l’ideologia è stata una vacanza. Credevo di vivere negli anni della rivoluzione, invece vivevo negli anni prima della rivoluzione, perché è sempre prima della rivoluzione che si è sempre come me…” (Fabrizio, "Prima della rivoluzione")

È il 1964 e “Prima della rivoluzione” è la seconda opera di Bertolucci. Dopo l’esordio controverso e pasoliniano, realizza il suo primo e vero film d’autore, raccontando una storia profondamente autobiografica, incrociando passione e ideologia, con richiami letterari fortissimi. Così forti e presenti che se l’opera prima fosse stata presentata negli anni Quaranta, sarebbe stato sicuramente un romanziere. Troppo evidenti i caratteri del romanzo di educazione sentimentale: il tentativo di inserire un personalissimo caso nella storia, l’identificazione dell’autore con l’eroe, la trasposizione dei pensieri e dei sentimenti propri ai personaggi.

Prima della rivoluzione” è il film dei molti amori e delle grandi passioni. L’amore per Jean Luc Godard. L’amore per Gianni Amico, co-sceneggiatore e produttore della pellicola. L’amore per Adriana Asti. L’amore per il Pci, che si stava già trasformando, già riformista. Il film fu presentato alla Semaine Internationale de la Critique al Festival di Cannes. E mentre i critici italiani lo stroncarono, i francesi lo difesero. Evidente quel richiamo alla Nouvelle Vague, di cui Bertolucci era innamorato. Tanto che lo stesso Godard salì sul palco per parlare del film.

L’Italia sta ormai uscendo dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, e Fabrizio non è altro che uno dei figli del Paese del boom economico, nella ricca e ridente città di Parma. Ma per lui quella città non può essere una risorsa. È una barriera, uno snodo nevralgico in cui si decide di sottostare alle regole oppure di soffrire per quell’ipocrita e controversa realtà. Sconvolto per il suicidio dell’amico Agostino, lascia la fidanzata Clelia, rinunciando al sicuro matrimonio, ed inizia una relazione con la giovane zia Gina. È una storia di richiami erotici continui, di desiderio, come un rapporto deviato e deviante, libertino, fuori controllo e fuori dalle righe, borghese, ma anche rivoluzionario. In realtà vi è solo il nulla. In Gina e in Fabrizio, in un amore in cui si attende un segnale, un segno, una mano che stringa un’altra mano e la trascini via. Invece non c’è niente. Tanto che Gina se ne va, tornando a Milano, lasciando Fabrizio disilluso, deluso, inerme e incapace di risolvere quel conflitto interiore che lo attanaglia. E nell’incontro con l’amico e guida Cesare, egli capisce che è finita quella stagione politica, in cui si vorrebbe essere brutti, sporchi e cattivi, ma in cui si è privi di contenuti. Nel dicembre 1962, durante la prima al Teatro Regio, Gina e Fabrizio riescono a incrociare gli sguardi, piangendo le lacrime, le estreme lacrime di quell’amore malato. Piegato e annientato, Fabrizio rientra nei ranghi della sua quotidianità borghese, torna di nuovo da Clelia, sposandola. Il tempo è passato, l’amore sovversivo e ribelle anche.

In fondo “Chi non ha vissuto negli anni prima della rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere”, come recita la celebre frase di Talleyrand all’inizio del film.
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